toc toc

il mare e la luna

Mi affaccio da turista al mio blog!
E mi sembra ormai doveroso pormi una semplice domanda: bloggo o non bloggo?
Rileggo vecchi post e riaffiorano alla mia memoria vaghi ricordi di pensieri, riflessioni, sensazioni, esperienze…

Che farò di tutto questo materiale?
Continuerò ad alimentarlo?
Considerando gli ultimi mesi… beh, la vedo dura 😉
E allora, lascerò tutto ciò in preda alla rete e disponibile alla rilettura? O spazzerò via i miei pensieri con un click?
Eppure mi dispiace abbandonare… proprio ora che i blog stanno passando di moda…

Ci penserò… fra qualche mese la risposta 😉

Giuliano Piazzi

Nell’ultimo mese le chiavi di ricerca più utilizzate per raggiungere il mio blog sono queste: “olocausto”, “spazzatura”, “etica e morale”, “feti”, “giuliano piazzi”.

Alcune mi sembrano strane e mi fanno capire che, probabilmente, chi incappa per caso nel mio blog se ne va in fretta.
Altre sono pertinenti.
Una mi rende particolarmente felice. “giuliano piazzi“, naturalmente.

principe_casador1

Per la stima che provo per lui. Perché gli sono riconoscente, per il suo lavoro e la sua sensibilità non cela mai nelle sue parole, nei suoi libri.

Vorrei che sapesse di essere tanto ricercato, sul web e probabilmente non solo.
Non vedo l’ora di incontrarlo una mattina presto al suo bar per dirglielo. Ma se qualcuno lo incontrasse prima di me e lo volesse informare, mi farebbe molto piacere! 😉

Sacre Letture – la paralisi dell’infelicità…

… OVVERO: omaggio agli invisibili.

Appunti da La storia di Elsa Morante.

morante2

Sulla coercizione mentale imposta dal lavoro di fabbrica (argomentazione tutt’oggi valida e applicabile a più ambiti del vivere sociale):

E così, là fissato al proprio automa-demiurgo, fino dal primo giorno Davide si trovò piombato in una solitudine totale, che lo isolava non solo da tutti i viventi dell’esterno, ma anche dai suoi compagni del capannone: i quali tutti – assenti al pari di lui, come sonnambuli nel loro travaglio rapinoso e nel loro incessante gesticolio coatto – subivano tutti la stessa sorte indifferenziata. Era come trovarsi in un reclusiorio dove la regola fissa sia le cella di rigore: e dove, inoltre, a ciascuno dei segregati il minimo necessario per la sopravvivenza sia dato a prezzo di ruotare senza riposo, e al numero estremo dei giri, intorno a un punto di supplizio incomprensibile. Sotto l’assillo di questa ventosa, che svuota dal di dentro, ogni altro interesse viene scansato come una insidia avversaria; o come lusso peccaminoso o disastroso che bisogna poi pagare con la fame.

Finché degli uomini, o anche un solo uomo sulla terra, sia forzato a una simile esistenza, discorrere di libertà, e bellezza, e rivoluzione, è un’impostura.

self-portrait2


La sua volontà morale, insomma, era di andarci; ma le sue gambe NON vollero più andarci. (Era – come lui stesso poi spiegava a Ninnuzzu – la paralisi dell’infelicità. Per qualsiasi azione reale, non importa se faticosa o rischiosa, il mvimento è un fenomeno di natura; ma davanti all’irrealtà contro natura di una infelicità totale, monotona, logorante, ebete, senza nessuna risposta, anche le costellazioni – secondo lui – si fermerebbero…)

Il paradosso della vita e della morte

vita_e_morte_gustav_klimt Mi ero ripromessa di non scrivere nulla di Eluana, per non incrementare l’universo delle comunicazioni spesso inutili sul suo stato.
Però mi capita spesso di pensare a suo padre e di come – immagino – avrebbe preferito mantenere nel silenzio il suo dolore.
Eppure lo ha reso pubblico e, in quanto tale, lo ha reso soggetto a stravolgimenti e strumentalizzazioni. Lo ha fatto, e credo sia stata una scelta ragionata e difficile, in nome dei diritti all’autodeterminazione e alla dignità – diritti di sua figlia e di tutti noi. E non possiamo che essergli grati per questo.

E così, se la “vita” di Eluana ha avuto un senso in questi lunghissimi anni, è stato proprio quello di spingerci a riflettere, tramite le garbate ma incisive azioni di Beppino Englaro, sulla costruzione sociale, politica, economica, medica, mediale ecc. del corpo e sulla violenza alla quale è costantemente esposto.

Ne parlavo a proposito di Terry Schiavo, finita, a sua insaputa e sicuramente suo malgrado, persino sui libri di sociologia. Ne riparlo ora. Perché la questione è importante e ha a che fare con la capacità della società di svincolare radicalmente la vita dal corpo.

Oggi più che mai, mentre in parlamento si consuma un’ignobile e ingiustificata operazione antidemocratica, mi sento di ribadirlo.

Non si tratta solo di Eluana, quanto del fatto, paradossale, che la vita e la morte, anziché poggiarsi sul dominio dell’umano, si collocano sempre più su di una dimensione sociale.
Il paradosso è quello dell’esistenza di corpi-vivi socialmente morti e di corpi-morti impossibilitati a esercitare il loro diritto di uscire da una vita socialmente alimentata.

I primi sono le vittime di una morte sociale, dimenticati, oscurati dall’indifferenza, resi innocui perché annientati nell’invisibilità. Sono i corpi dei profughi, di chi assiste a guerre delle quali noi, dopo qualche scoppio mediale, dimentichiamo l’esistenza, dei lavoratori che si logorano nel terrore della chiusura di una fabbrica o di un’imminente cassa integrazione; i corpi delle donne che, spesso silenziosamente, subiscono inauditi soprusi. Sono corpi dalla vita pulsante, eppure sono vittime invisibili, sopravvissute, per usare le parole di Slavoy Žižek, alla propria morte (sociale).

E poi ci sono corpi-morti. Corpi che non vogliono vivere, né potrebbero farlo senza l’accanito ausilio di macchinari, corpi spogliati della loro vitalità che è un qualcosa in più rispetto a un insieme di meccanismi neuro-vegetativi o di impulsi elettrici. Corpi-morti che la società mantiene in vita nella comunicazione, rendendoli strumentalmente visibili e soggetti a continue speculazioni finalizzate a rafforzare le convinzioni religiose, a confermare l’assoluta efficacia della medicina, a dare spazio alla violenza della politica e dell’economia.

Vita e morte, dunque, come terreno di contesa per la riproduzione della società, delle sue relazioni, dei suoi meccanismi di potere, dell’universo comunicativo che quotidianamente ne alimenta l’esistenza.
Ma la storia non è nuova

La preoccupazione tuttavia cresce di fronte a frasi quali “Eluana potrebbe ancora avere figli…”. Frasi nemmeno degne di essere prese in considerazione se non per il fatto che, forse, purtroppo, riflettono il pensiero di molti. Frasi che, oltre a offendere la triste storia di Eluana, il suo corpo, la vita che avrebbe potuto avere, offendono ancora una volta il corpo della donna e con esso le origini della vita stessa.
Come se un corpo che non procrea, per volontà o per qualsiasi altro motivo, fosse un po’ meno degno di vivere.
Come se la procreazione fosse un mero processo meccanico che necessita di uno strumento funzionante – la donna appunto – e, una volta avvenuta, di un contenitore idoneo – sempre la donna – alla conservazione di un frutto pronto a riprodurre una nuova vita sociale. Donna svilita a strumento-contenitore, feto ridotto a nuova occasione di ripoduzione del sociale … Corpo-non fertile come corpo meno vivo … Corpo-funzionante come corpo-funzionale alla rirpoduzione di meccanismi altri, completamente svincolati dalla dimensione umana …

È questa la definizione di vita che si sta via via delineando. E io credo che, anche attraverso la storia Eluana, ciascuno di noi debba riflettere su quale modello di corpo-vita intende riconoscersi.